Prefazione alla raccolta di Andrea Cecon, Haibun italiani, Amazon Digital Services Inc., 2014, pp. 42 (Euro 2,64).
«Lasciata la mia dimora, non desidero nulla. Avendo le mani vuote, non temo le insidie del viaggio.» Matsuo Bashō (dall’Oi no kobumi 笈の小文)
Matsuo Bashō (1644-1694), oggi unanimemente considerato tra le voci poetiche più significative di tutti i tempi, era solito definirsi “una foglia in balia del vento”, ovvero un’esistenza nobile ed effimera, una parentesi di luce destinata a tramontare oltre l’orizzonte silenzioso. Nei suoi haibun 俳文 (“scritti haikai”) questo senso di “impermanenza” diviene il leitmotiv dominante nel rapporto uomo/natura, laddove ogni più piccolo (e, all’apparenza, ininfluente) accadimento quotidiano assurge, pur nella propria levità, a specchio dei mutamenti stagionali. Seguendo la via del fūryū 風流 (“soffio del vento”), la voce del poeta si fa dapprima sussurro e poi respiro: il suo tono si rinnova di ora in ora, senza fretta, senza identità, in perfetta simbiosi con la corrente ove “tutto passa e tutto resta”.
Così, nelle opere presenti in questa raccolta (la prima, in Italia, interamente dedicata al genere haibun), Cecon dimostra di conoscere a fondo non solo l’estetica ed i valori letterari “tradizionali” (tali intendendo quelli consolidatisi dalla Scuola Shōmon in avanti), ma di saperli reinterpretare ed adattare a proprio piacimento, senza infrangere la superficie delle cose e senza mai perdere di vista l’orizzonte del “qui e ora”. «Come se la montagna non fosse un ostacolo, come se le cose materiali non fossero il vero problema»: la dote poetica dell’autore segue le linee tortuose di un viaggio allo stesso tempo fisico e mentale, alternando una limpida descrittività degli eventi a considerazioni più intime e viscerali, sempre condivisibili, sempre stabilmente protese verso quell’”indefinito istante” che è il presente dell’uomo.
Cecon ha viaggiato realmente; ogni “pagina di diario”, infatti, riporta fedelmente anno e Paese in cui è stata composta. I costrutti sono brevi e mai prolissi, e la punteggiatura ridotta all’essenziale, nel pieno rispetto dei “canoni” classici. Ciò che rende unica questa raccolta è, tuttavia, la chiara naturalezza con cui egli riesce a condividere con il lettore la propria dimensione del reale. La narrazione a tratti s’interrompe, con spontanea sorpresa, per assimilare immagini, suoni e profumi; la cronistoria si fa individualismo, coloro che prima erano semplici “spettatori” vengono chiamati a recitare la loro parte, aggiungendo ciascuno la propria dote di certezze e di perplessità. Il palcoscenico è il quotidiano, in ogni sua accezione: «Quando sei in aeroporto tutto sembra come cristallizzato: in fin dei conti sei partito, ma è come se non fossi ancora partito».
Gli haiku, lungi dal ridondare il senso globale della prosa, ne rappresentano il completamento, donando allo haibun un indubitabile valore poetico. Anche ignorando il “curriculum” di Cecon (nome ormai noto a livello internazionale), infatti, è impossibile non riconoscere in essi quel sentimento marcatamente umano per le cose (mono no aware 物の哀れ) e quella delicatezza espressiva (shiori しをり) che – se non irripetibili – ricorrono con eccezionale rarità nel DNA di uno scrittore.
Una raccolta, dunque, che presenta un doppio merito: quello, auspicabile e totalmente condivisibile, di voler aprire una “finestra italiana” sul mondo dello haibun (ad oggi, quasi del tutto assente) e quello, altrettanto importante, di renderci consapevoli del fatto che ciascuno di noi è “in viaggio”, con il proprio bagaglio di emozioni, ad affrontare un cammino che non ammette deviazioni, ma che dev’essere imboccato con la convinzione di chi «attingendo poca acqua, conosce il gusto di cento fiumi» (Bashō, Shūfū no gin).