Recensione della raccolta The Clay Jar di Caroline Giles Banks, Wellington-Giles Press, 2013, Euro 2,63 (formato e-book).
The Clay Jar è una raccolta di haiku, senryū e haibun pubblicata nel 2013 dalla poetessa americana Caroline Giles Bank (attiva nel panorama letterario internazionale sin dalla fine degli anni Ottanta), uscita quasi in contemporanea alla forse più nota opera Tigers, Temples and Marigolds, edita nello stesso anno sempre per i tipi della Wellington-Giles Press.
Il libro è suddiviso in due parti o, meglio, in due sezioni: la prima racchiude oltre un centinaio di componimenti appartenenti sia al genere haiku che senryū, mentre la seconda presenta nove haibun, genere nel quale la Banks si cimenta ormai da diversi anni con esiti decisamente positivi.
Come di consueto in una raccolta in lingua inglese, gli scritti appartenenti alla prima sezione non seguono lo schema metrico in 5-7-5 sillabe, ma ne adottano uno più fluido e “libero”, foneticamente aderente al modello breve-lungo-breve, con alcune sporadiche eccezioni che, tuttavia, non scalfiscono l’evocatività delle scene in esse racchiuse.
Lo stacco (kire 切れ) che separa, nella maggior parte dei lavori, i due momenti (ku 句) in cui questi si dividono non viene reso graficamente mediante il ricorso a cesure segniche (ad esempio, la lineetta “–”), ma emerge nitidamente all’atto della lettura, sostanziando a seconda dei casi una giustapposizione (toriawase 取り合わせ) decisa e contrastante o armonizzante.
Come nell’esempio che seguirà a breve, non mancano peraltro componimenti redatti secondo la tecnica dell’ichibutsu jitate 一物仕立て o haiku “a un solo elemento”; anche in questo caso, tuttavia, vengono preservate, solide e intatte, le direttrici estetiche che ne determinano il contenuto e il movimento interiore, principalmente la levità (karumi 軽み), la delicatezza (shiori しをり) e quell’innata capacità di lasciarsi attraversare dalle cose del mondo (mono no aware 物の哀れ) che è divenuto, oramai, il “marchio di fabbrica” della Banks.
Vi è un’ampia varietà di scene e immagini nel registro espressivo dell’autrice, e ciò contribuisce ad ingenerare nel lettore un continuo senso di sorpresa e suggestione, specie laddove a rappresentazioni più semplici ed immediate (tree cutting/ the robin keeps returning/ to the stump; taglio dell’albero/ il pettirosso continua a tornare/ sul troncone) – ma non per questo scontate – fanno da contrappeso immagini vivide, dotate di un germe di freschezza che solo lo spettatore più attento può sviluppare attraverso la propria esperienza individuale:
jasmine
thrown to Buddha
returned as smoke
il gelsomino
offerto al Buddha
ritorna come fumo
I senryū presenti nella raccolta sono parimenti degni di nota, riportando una varietà di sentimenti e declinazioni del sentire umano che spaziano da leggero e faceto (driver’s license/ for the first time ever/ my weight is the same; patente di guida/ per la prima volta [in assoluto]/ il mio peso è lo stesso) alla profonda e autentica condivisione di scene di vita appartenenti al nostro quotidiano sociale (B&B honeymoon suite/ for the first time we talk/ of separation; suite B&B luna di miele/ per la prima volta parliamo/ di separazione), sino a giungere alla mia opera preferita, la quale evoca un ventaglio di suggestioni decisamente umane e commoventi:
99¢ baskets
the girl’s childhood
in each bent reed
ceste da 99¢
l’infanzia della ragazza
in ogni giunco piegato
Nella seconda parte del libro, come detto, la Banks presenta al lettore nove brevi componimenti in forma haibun, equamente distribuiti nelle tre sotto-sezioni Narita (Giappone), Spring Green e Lake Superior (Wisconsin). Il registro espressivo, sebbene in certi casi assuma derive forse eccessivamente descrittive e didascaliche (in particolare, nella sotto-sezione centrale), è comunque generalmente pulito e mai artificioso, ben legandosi agli haiku che, posti alla fine della parte testuale, completano quest’ultima con coerenza e freschezza.
The Clay Jar rappresenta dunque, in buona sostanza, l’ennesima prova poetica di successo della Banks, autrice purtroppo ancora poco nota in Italia ma che, sono certo, non mancherà di affascinare quanti si concederanno il piacere di leggerla, calandosi in quella bellezza autentica e a tratti malinconica che l’autrice stessa propone al pubblico per intima necessità e vocazione, pur senza imporre alcuna direzione, giacché, come affermato da Wisława Szymborska:
basta che qualsiasi cosa
portata dalle parole
stormisca, risplenda,
voli nell’aria, guizzi nell’acqua,
o anche conservi
un’apparente immutabilità
ma con una mutevole ombra¹
Note
¹ W. Szymborska, Due punti, Adelphi, 2006, p. 45.