Breve ricognizione sull’estetica dello shibui nella poesia haiku.
Termine fondamentale nella ricostruzione dell’estetica giapponese è lo shibui 渋い. Forma aggettivale del sostantivo shibusa 渋さ, letteralmente “austerità” o, più probabilmente, di shibumi 渋み (“astringenza”), esso affonda le proprie radici nella poetica del Periodo Muromachi (1333-1568), indicando, essenzialmente, tutto ciò che è asciutto o “astringente”, in contrapposizione a ciò che è amai 甘い, ossia “dolce”.
Sebbene la trattatistica in materia di poesia haiku tenda a focalizzare l’attenzione del lettore su altri principi estetici (principalmente il wabi 侘, il sabi 寂, il mono no aware 物の哀れ e lo yūgen), merita di essere evidenziato come anche lo shibui, con il suo fascino acerbo, discreto ed essenziale, abbia contributo in misura non trascurabile a ridefinire i contorni di un genere – lo haiku appunto – che fonda il proprio fascino sulla semplicità ed immediatezza di espressione, ossia sulla capacità, da parte dello haijin 俳人, di saper cogliere la realtà nel momento stesso in cui questa si manifesta, attraverso un procedimento di “quiescienza della mente” che non significa ablazione del sé, ma, ad un livello più profondo, riscoperta del sapore autentico dello spirito (kokoro no aji 心の味)¹ latente in ogni cosa, nel qui e ora naturalistico.
Come rimarcato dallo scrittore e poeta giapponese Haruo Satō (1892-1964) nel suo Fūryū no ron (“Discorso sull’eleganza”) del 1924:
L’eleganza – o, quantomeno, l’eleganza così come perfezionata da Bashō [e da altri poeti] – è, essenzialmente, un’estrema intensificazione della sensibilità. Non importa quale sia il suo peso religioso o filosofico; essa è fondamentalmente artistica. Nella letteratura, l’arte dell’eleganza predilige una poetica estemporanea, quanto più vicina possibile al silenzio; nella pittura, invece, dipinti monocromatici, prossimi al vuoto.²
Lo shibui, con quella sua eleganza minimalista e “pungente”, adatta al buon gusto dell’epoca nella quale questo termine è entrato nel linguaggio comune, venne ben presto svincolato dai confini estetici del colore e della forma, per abbracciare – più in generale – atteggiamenti sociali e stili di vita. In questo senso, assumono un peso determinante le parole del critico e filosofo Yanagi Sōetsu (1889-1961):
Proprio in una bellezza ricca di implicazioni interiori risiede il carattere discriminante dello shibui. Non una bellezza ostentata al pubblico dal suo creatore, dunque, [bensì] una bellezza che l’osservatore stesso deve trovare da sé. Così, man mano che il nostro gusto si affina, arriveremo inevitabilmente a far esperienza del fascino dello shibui.³
Di seguito riportiamo un esempio di haiku del monaco Daigu Ryōkan (1758-1831) e rappresentativo dell’estetica dello shibui:
鉄鉢に明日の米あり夕涼み
tetsubachi ni asu no kome ari yūsuzumi
fresco serale –
nella ciotola di ferro
il riso di domani
Tratti essenziali dello shibui, dunque, sono rinvenibili in uno stile artistico che predilige colori tenui, trame semplici e un registro linguistico privo di eclatanze e ostentazione, anzi a tratti “oscuro” e misterioso come una stampa monocroma sumi-e 墨絵. Sebbene chiaramente legato ad altri valori estetici, primi fra tutti il sabi e lo yūgen, lo shibui manifesta, al contempo, un forte legame con la dimensione del sociale in senso ampio, e del “gusto estetico” in senso stretto. Non è, infatti, raro leggerlo in associazione con un secondo termine piuttosto noto nella manualistica specializzata, ossia jimi 地味 (“semplice”, inteso come forma di espressione del “buon gusto” comune) che, sebbene nato originariamente con una connotazione negativa e, a tratti, ironica, ha finito negli anni con l’inglobare la semantica di shibui, assorbendo quest’ultimo in un’unica espressione di “sobrietà” stilistica.
Note
¹ Cfr. M. Polia, Kokoro-no aji: Il sapore dello spirito, https://bit.ly/2HK1kB5.
² D. Richie, A Tractate on Japanese Aesthetics, Stone Bridge Press, 2007 pp. 27-28.
³ Id.
Articolo originariamente pubblicato su Cinquesettecinque.com il 29 giugno 2016.
Immagine: Totoya Hokkei, Cortigiana, 1890 circa.