Approfondimento a cura di Antonio Sacco
In questo intervento si prende in esame come l’Oriente e l’Occidente si siano rapportati alla morte attraverso la poesia. Vengono presi in esame i jisei giapponesi e i sijo coreani per l’Oriente e l’epitaffio, l’elegia latina e i versi liberi per l’Occidente. Dallo studio di tali componimenti emergerà una chiara visione della concezione orientale della morte, influenzata dal buddhismo Zen e dal taoismo, e della concezione occidentale del fine vita. Tenteremo di dare risposta al quesito “può la poesia aiutarci nel momento del trapasso?”, tenendo in mente che, nonostante sia un momento estremamente delicato e intimo, dalle poesie di addio al mondo possono emergere – trasversalmente da Oriente ad Occidente – i più disparati stati d’animo perché, nella sua essenza, l’essere umano è mosso dagli stessi moti interiori innanzi all’ultimo atto della propria vita.
un nuovo autunno –
nascono altri colori
da foglie morte
Antonio Sacco
Introduzione
L’articolo nasce da una domanda che mi sono posto tempo fa: che differenze sussistono fra il modo di approcciare alla morte attraverso la poesia in Oriente e in Occidente? Senza dubbio riflettere profondamente sul tema della morte mediante la poesia può essere un modo per rendere più piene e pregnanti le nostre vite: domandarsi, negli ultimi istanti di vita, il senso della nostra venuta al mondo, fare un bilancio delle nostre esistenze e delle esperienze che abbiamo vissuto esprimendole in forma di poesia, dire una nostra personalissima “ultima parola” sul mondo può facilitare la serena accettazione della morte. In questo senso è sicuramente utile la funzione catartica e consolatoria della poesia una volta giunti al termine dell’esistenza. Studiando questi tipi di poesia (trasversalmente da Occidente ad Oriente) mi è stato chiaro che possono prevalere i più disparati sentimenti connessi all’addio al mondo: dall’accettazione alla rassegnazione, dalla rabbia al crudo realismo, dalla paura al tentativo ultimo di pacificazione e così via. Questo perché l’essere umano è mosso dagli stessi moti interiori e dalle stesse passioni di fronte alla morte indipendentemente da che punto del globo si trovi. Lasciare (attraverso la poesia) un ricordo o una traccia di sé, di quel che si è stato e, quindi, un segno di un particolare modo di essere-nel-mondo è indubbiamente un bisogno intimo ed ancestrale dell’essere umano. La morte, in quanto parte della vita, necessita di essere affrontata, interiorizzata, riconosciuta come un evento naturale necessario e ineluttabile e, infine, accolta e accettata.
Può la poesia avere un ruolo in questo processo? Secondo me sì, sicuramente. Almeno per chi di poesia ha vissuto e non ha mai smesso di ricercare l’unicità e l’irripetibilità di ogni cosa, guardando ad esse con occhio nuovo come un uomo che vede per la prima volta le cose del mondo, cercando di darle un nome. Per chi, per tutta la vita, ha cercato lo straordinario nell’ordinarietà delle cose, per il vero Poeta intendo, la poesia è un potente mezzo per pacificarsi con il mondo e prepararsi a riposare in pace.
Jisei o “Death Poems”
Nelle culture estremo-orientali troviamo dei tipi di componimenti, chiamati jisei, in cui il poeta si congeda, con le sue ultime parole, dal mondo. In realtà questi tipi di poesie non sono classificabili esattamente né come haiku né come senryū, ma meritano una categorizzazione a parte. Possiamo dire che i jisei che ricalcano la forma degli haiku vengono chiamati jisei no ku, mentre i componimenti sul calco del tanka (più frequenti) vengono chiamati jisei no uta. Nei jisei in generale, la natura diviene metafora del fine vita. È singolare notare come negli haiku, quasi sempre, abbiamo un rifiuto delle figure retoriche eccezion fatta per la metonimia. Il kigo di uno haiku infatti, è quella parola che, con un alto grado di specificità (metonimicamente, appunto), suggerisce la stagione nel quale lo haiku è composto o alla quale si riferisce. Nei jisei no ku, invece, tutto l’impianto poetico è imperniato sulla metafora che diverse immagini in giustapposizione (toriawase) in uno stesso componimento danno della vita e della morte. Per questo ricorrenti, nei jisei no ku, sono le immagini della neve che si scioglie, in allusione alla vita che si dissolve per diventare altro da sé, come in questo componimento di Bokusai, morto nel 1914:
una parola di addio?
La neve che si scioglie
non ha odore
O anche quest’altro jisei no ku di Fusen, deceduto nel 1777 all’età di cinquantasette anni:
oggi, quindi, è il giorno
in cui il pupazzo di neve che si scioglie
è un uomo vero
Fusen morì in pieno inverno, e l’immagine di un uomo che si scioglie come un pupazzo di neve è un calzante riferimento stagionale (kigo); c’è da dire che l’immagine data non si ferma solo alla stagionalità ma è molto pregnante anche per dare l’idea della transitorietà e caducità della vita umana.
Oppure altra ricorrente metafora sono le foglie che cadono in autunno, presupposto per creare nuova vita come in questo jisei no ku di Gohei, morto nel 1819:
una foglia solitaria di paulonia
cade attraverso
la pura aria autunnale
In questo jisei no ku è interessante notare come il kigo (aria autunnale) rimanda ad un hon’i (il “sentimento originale” collegato ad un kigo) particolarmente evocativo e calzante per il fine vita. È proprio grazie alla presenza dello hon’i che si supera l’immagine naturale espressa per arrivare alle emozioni che dipendono da tali immagini naturali, normalmente non espresse direttamente in uno haiku. La paulonia (kiri), poi, è nota per lasciare cadere le proprie foglie anche quando nessun soffio di vento la sta agitando; lo hon’i al quale rimanda questo kigo è il senso di solitudine, di caducità (il mono no aware) collegato alla caduta delle foglie autunnali, al non-attaccamento alla vita poiché tutto è soggetto alla transitorietà e alla precarietà del divenire.
Ancora un altro esempio di jisei no ku in cui si riferisce alle foglie d’autunno è questo di Ryōkan, morto all’età di settantaquattro anni, nel 1831:
ora rivela il suo lato nascosto
e ora l’altro –
una foglia d’autunno
È il ciclo continuo della vita; nei jisei emerge con forza la concezione orientale rispetto alla morte, che non è opposta e contrapposta alla vita bensì parte integrante di essa: è un destino ineluttabile da affrontare con dignità e consapevolezza, non senza paura, prendendolo come un dato naturale, come una “Legge di Natura”. L’Oriente, influenzato dal buddhismo Zen, fa propri i concetti di impermanenza e non-attaccamento alle cose e alla vita dato, del resto, evidente in alcuni canoni estetici giapponesi, presenti anche in letteratura, quali il wabi-sabi e il mono no aware. Emblematico, in questo senso, il jisei no ku di Senryū (1827):
come gocce di rugiada
su una foglia di loto
io svanisco
L’epitaffio
Per certi versi analogo al jisei no ku, in Occidente troviamo il genere letterario dell’epitaffio il quale è un’iscrizione funebre avente come scopo quello di onorare e ricordare un defunto (epitaphion, dal greco: “ciò che sta sopra al sepolcro”). Molte volte l’epitaffio è costituito da uno o più versi di una poesia: non a caso, in analogia con i jisei, molti poeti hanno scritto di proprio pugno, in punto di morte, i loro epitaffi. Va da sé che un buon epitaffio, come, del resto, un buon jisei deve possedere qualcosa che resti impresso nella mente del lettore o che faccia riflettere. Un esempio può essere l’epitaffio inciso sulla tomba del poeta romantico John Keats, il quale non volle scritti né il nome, né la data di morte ma semplicemente:
“Qui giace un uomo il cui nome fu scritto nell’acqua”
La forte carica simbolica di un particolare significativo della natura che ritroviamo nei jisei lo accomuna anche ad alcune poesie in versi liberi di autori occidentali come, ad esempio, questa di Aleksandr Blok (1880-1921), il quale era solito scrivere poesie cariche di un grande simbolismo:
Tutto muore al mondo
Tutto muore al mondo, madre e giovinezza
la donna tradisce e l’amico scompare.
Impara ad assaporare una nuova dolcezza
contemplando il freddo circolo polare.
Prendi la tua barca, salpa verso il polo
tra mura di ghiaccio e in silenzio oblia
come l’uomo ama, lotta e muore solo:
dimentica il paese dell’umana follia.
Ed all’anima stanca insegna, mentre lento
s’impossessa del sangue il brivido del gelo,
che non le serve a nulla questo pianeta spento
perché i raggi vengono dal cielo.
Chiedersi, in punto di morte, se questo mondo è reale (e se lo è, è realtà di che cosa) diviene un tema ricorrente nei jisei no uta (jisei in forma di tanka) come viene espresso dal poeta Ki no Tsurayuki:
come la luna
che si compone sull’acqua
nella conca delle mani,
questo mondo non sappiamo
se sia o se non sia
Mero riflesso di luna sull’acqua (in turco, yakamoz), realtà o illusione, l’Io poetante si colloca in una dimensione “altra” facendo irradiare dai suoi versi un alone di mistero e fascino (yūgen – shiori). Del resto è evidente il fatto che, in Oriente, la morte è vista come un passaggio più che una vera e propria fine. Emblematico, in tal senso, questo aneddoto che troviamo nel Zhuāngzǐ, in cui il trapasso è visto come ritorno al Qi (soffio vitale dell’Universo). Comprendere questo ha come diretta conseguenza la pacificazione e l’accettazione da parte di Zhuāngzǐ della morte dell’amata moglie:
La morte della moglie di Zhuangzi
Un amico vuole andare a visitare Zhuangzi e porgergli il cordoglio per la morte di sua moglie. Quando arriva dentro la casa di Zhuangzi, lo trova sul pavimento intento a suonare un tamburo e cantare. L’amico, fervente confuciano, rimane scandalizzato perché non rispetta il rito del lutto e chiede a Zhuangzi perché si stia comportando così. Risponde che anche lui aveva avuto un periodo di lutto in cui era stato distrutto dal pianto, ma poi aveva compreso una cosa: c’era stato un periodo in cui la moglie non era nata ed era sotto forma di Qi (soffio vitale in circolo nell’universo), poi ha preso forma, ha vissuto la sua vita come moglie di Zhuangzi, è morta ed è ridiventata qi.
Zhuangzi quindi ha smesso di piangere, ha capito che non è una perdita definitiva, non perché abbia fatto un ragionamento logico o razionale, ma perché non ha sublimato le sue emozioni, è arrivato al culmine dell’angoscia ed esso ha generato il suo contrario: la calma, l’accettazione.
In questo jisei no ku di Bairju (1863) troviamo un concetto simile espresso in forma di poesia:
ortensia*
tu cambi e cambiando torni
al tuo colore originario
*Ortensia, in giapponese nanabake o fiore dei “sette cambiamenti”: questo perché muta i suoi colori, durante la fioritura estiva, per ben sette volte, da sfumature di verde al giallo, blu, porpora, rosa e, infine ritorna al verde.
Ancora, è innegabile che in questa poesia in versi liberi del poeta russo Fëdor Tjutčev (1803-1873) lo scritto non riesca a compiere il “miracolo”, agendo come catalizzatore e portando il poeta ad una serena accettazione della morte:
Pacificazione primaverile
Oh non mettetemi
nella terra umida!
Nascondetemi, seppellitemi
nella folta erba!
Che il respiro del vento
faccia ondeggiare l’erba,
che di lontano un flauto canti,
che luminose e placide le nubi
fluttuino sopra di me!…
I sijo
Fra i “death poems” nelle culture estremo-orientali troviamo anche le poesie coreane chiamate sijo, le quali vennero utilizzate, fra i tanti temi trattati, anche per congedarsi dal mondo. Tali poesie hanno un impianto poetico basato su un metro prestabilito: di solito nella forma di 3 versi ciascuno con 14-16 sillabe, presentano una cesura, una pausa interna al verso che lo divide in due emistichi. Per questo motivo, a volte, nelle traduzioni i sijo vengono divisi in 6 versi invece dei 3 originali, ogni mezzo verso contiene, quindi, 6-9 sillabe e spesso l’ultimo verso viene accorciato di proposito.
Esempi di sijo come mezzo per salutare il mondo attraverso la poesia:
Come il suono del tamburo chiama la mia vita,
giro la testa lì dove sta per tramontare il sole.
Non c’è nessuna locanda sulla strada per gli inferi.
A casa di chi dovrei dormire stanotte?
Soeng Sam- mun (1418-1456)
*
Se questo corpo muore e muore di nuovo centinaia di volte,
ossa bianche che diventano polvere, con o senza traccia di anima,
il mio fermo cuore verso il Signore, potrebbe mai svanire?
Jeong Mong-ju (1337-1392)
L’elegia latina
Abbiamo già avuto modo di parlare dell’epitaffio come poesia funerea, ma in Occidente abbiamo altri esempi di stili e generi letterari usati come espressione di un lutto, fra essi vi è l’elegia latina. Ciò che distingue l’elegia latina rispetto ai pochissimi precedenti nei poeti elegiaci ellenistici è l’impostazione maggiormente soggettiva e autobiografica. L’elegia latina fu molto usata nei lamenti funebri, nell’esprimere un lutto tanto che l’associazione dell’elegia al pianto divenne un topos (vedi l’Ars poetica di Orazio e gli Amores di Ovidio). Da un punto di vista metrico, l’elegia era costituita da distici detti, appunto, elegiaci, strutturati come esametro e pentametro. Un esempio di elegia è il carme 101 di Catullo, in cui il poeta esprime tutto il suo dolore per la morte del fratello:
Condotto per molte genti e molti mari
sono giunto a queste (tue) tristi spoglie, o fratello,
per renderti l’estrema offerta della morte
e per parlare invano alla (tua) muta cenere,
poiché la sorte mi ha portato via proprio te, ahimé,
infelice fratello ingiustamente strappatomi via!
Ora questi pegni, che secondo l’usanza degli avi
sono stati consegnati come triste omaggio funebre,
accettale, stillanti di molto pianto fraterno,
e per sempre, o fratello, ti saluto e ti dico addio.
I jisei no ku dei quattro grandi Maestri di haiku
Malato in viaggio:
i miei sogni vagano
sui campi appassiti
Bashō
Questa è l’ultima poesia di uno dei più grandi poeti haiku. Bashō si era gravemente ammalato in uno dei suoi numerosi viaggi; quando i suoi allievi gli hanno lasciato intendere che avrebbe dovuto lasciare una poesia d’addio, lui rispose che uno dei suoi haiku poteva essere il suo death poem. Tuttavia, l’ottavo giorno del decimo mese, dopo aver raccolto i suoi discepoli attorno al suo capezzale, scrisse questo jisei no ku. Bashō morì quattro giorni dopo, nel 1694, all’età di cinquantuno anni.
*
nelle ultime notti
stanno nascendo
fiori di pruno bianchi
Buson
La sera della sua morte, Buson chiamò il suo discepolo Gekkei e gli chiese di scrivere tre poesie. L’immagine di un usignolo appare nelle prime due, e nella terza (questa) quella di un pruno. Entrambe le immagini sono associate al tardo inverno e all’inizio stagione primaverile. Buson si spense nel 1783 all’età di sessantotto anni.
*
che importa se vivo?
Una tartaruga vive
cento volte più a lungo
Issa
Un antico credo orientale vede nella tartaruga un simbolo di lunga vita, attribuendo a questa un’esistenza di diecimila anni. Se l’uomo dovesse vivere fino a cent’anni, la sua vita sarebbe non più di una centesima parte della vita di questa creatura munita di guscio, che trascina la coda nel fango. Perché allora un uomo dovrebbe chiedere un altro anno, un mese o un giorno?
*
tarai kara
tarai ni utsuru
chimpunkan
da un bacile
ad un altro –
che stupidità
Issa
La parola tarai significa “vasca” o “bacile”. Il riferimento è, forse, ai bacili per pulire i neonati e per pulire i morti. La vita di un uomo non è altro che un linguaggio senza senso (chimpunkan indica, nel discorso colloquiale, i suoni incomprensibili di una lingua straniera) che inizia nella culla e finisce nella tomba. Il Maestro Issa spirò nel 1827, all’età di sessantacinque anni.
*
fiorisce la luffa e
io, pieno di catarro,
divento un Buddha
Shiki
Shiki scrisse tre death poems. Tutti e tre contengono riferimenti alla luffa (hechima), una vite rampicante con vari usi pratici. La linfa di luffa è consigliata come rimedio per la tosse, e veniva data, per questo motivo, ai malati di tubercolosi. Shiki morì a causa di questa patologia nel mese di settembre del 1902, all’età di trentasei anni.
Conclusioni
Come abbiamo visto, i jisei, per forza e pregnanza poetica, rappresentano un caso unico nel panorama della letteratura mondiale. Tentativo di pacificazione, di accettazione della morte attraverso un’immagine naturale rappresentano il più alto esempio di come lasciare questo mondo in modo “poetico”. Venivano spesso usati anche nel suicidio rituale del seppuku. Ad esempio Yukio Mishima, nel 1970, compose questo jisei no ku prima di suicidarsi:
a small night storm blows
saying “falling is the essence of a flower’
preceding those who hesitate
soffia una piccola tempesta notturna
dicendo “cadere è l’essenza di un fiore”
precedendo quelli che esitano
Non è neppure mancato chi, con crudo realismo, scrisse:
death poems
are mere delusion –
death is death
le poesie di morte
sono pure illusioni –
la morte è la morte
(Toko, 1710-1795)
Abbiamo anche gettato un occhio sui sijo coreani, vedendo che questi tipi di componimento, pur non essendo strettamente legati solo ed esclusivamente al tema della morte, sono stati usati per un ultimo saluto al mondo, spesso giurando fedeltà e lealtà al proprio Signore anche davanti all’ultimo atto della vita di una persona.
In Occidente, pur non avendo nulla che possa avvicinarsi ai jisei giapponesi, abbiamo sondato, seppur brevemente, le caratteristiche dell’epitaffio e dell’elegia latina, notando come spesso queste forme letterarie servissero per lasciare una frase ai posteri su chi si è stati in vita (epitaffio) o un lamento funebre in morte di una persona cara o di un parente (elegia). Anche il verso libero è stato molto usato, in parecchi casi, per redigere una sorta di testamento spirituale. Su tutti si veda la poesia di Taras Shevchenko, eroe nazionale ucraino, intitolata Testamento.
La poesia insegna che si può lasciare questo mondo onorando la propria unicità e irripetibilità, e che essa può essere un aiuto persino nel momento del trapasso perché quello che, in fin dei conti, resta negli altri non è quello che abbiamo scritto ma il nostro modo di aver vissuto, stupendoci di fronte alla bellezza di un fiore, di una notte di plenilunio e di tutte le meraviglie di cui siamo stati partecipi in questa vita. Questo, credo, è quel che conta più di tutto: esserci sentiti parte del Tutto e il Tutto parte di noi, in commistione con ogni creatura vivente e non.
La poesia insegna che siamo parte di questo Tutto cosmico.
Il mio testamento
Quando morirò
se vorrai cercarmi
fallo sapendo che:
sarò vento fra le fronde,
flutto nel mare,
stilla di pianto
sul viso di chi ho amato.
Sarò nota di sinfonia,
vagito di bimbo
fiore che si schiude,
sole che tramonta.
E sarò altro da questi dolori,
altro da queste sofferenze,
da queste brutture.
Perso tra le pieghe della realtà,
rarefatto nella luce soffusa del vespro,
sarò ancora linfa vitale.
Possa la mia vita esser come
vagito di bimbo, rantolo di morte
cerchio che si chiude.
Antonio Sacco
Il mio jisei no ku?
addio al mondo –
anche il pruno saluta
i propri petali
Bibliografia:
- O. Civardi, Jisei. Poesie dell’addio, SE
- Y. Hoffman, Japanese Death Poems
- K.S. Guthke, Epitaph culture in the west. Variations on a theme in cultural history, Mellen, 2003
- P. Pinotti, L’elegia latina. Storia di una forma poetica, Roma, 2002
- N. Perasso, L’ululato del firmamento. 100 sijo, Phasar Edizioni
- L. Kia-hway (a cura di), Zhuang-zi (Chuang-tzu), trad. di C. Laurenti e C. Leverd, Adelphi
Lavoro molto interessante, che testimonia come un evento così estremo possa essere vissuto con la stessa tonalità emotiva ma con forme e tecniche poetiche diverse. Potendo scegliere tra il tuo testamento (occidentale) e il tuo jisei no ku (orientale), preferisco il secondo per la genuinità e semplicità , caratteri che dimostrano quanto abbia inciso il mondo orientale nella tua formazione e nella tua cultura. Se dovessi scrivere il mio jisei no ku, per marcare la mia natura di uomo di scuola scriverei (salvo ripensamenti)
Tornando a scuola
Un tappeto di foglie
sul pavimento
Ti ringrazio di cuore Francesco, commento molto pertinente e oculato il tuo. Riuscitissimo e molto apprezzato anche il tuo jisei no ku, i miei complimenti.
Antonio
Buongiorno Antonio Sacco,
ho letto con molto interesse il suo articolo.
Le scrivo come psichiatra e coordinatore di SOPROXI (un progetto che si occupa di persone in lutto dopo un suicidio).
Nel sito di SOPROXI abbiamo un blog “Le arti del sopravvivere” https://www.soproxi.it/le-arti-del-sopravvivere/
e mi piacerebbe molto poter ospitare, con il consenso di Luca Cenisi, una versione, magari ridotta, del suo articolo.
mi faccia sapere, se vuole può scrivere anche alla mail info@soproxi.it
grazie dell’attenzione e Buona Pasqua,
Paolo Scocco