Approfondimento a cura di Antonio Sacco
In questo breve scritto vorrei porre attenzione su di un particolare aspetto del kireji (切れ字, letteralmente “carattere che taglia”) ossia una parola, intraducibile, che indica uno stacco (kire, 切れ), un intervallo (ma, 間) e che nella lingua giapponese viene reso appunto attraverso particolari categorie di parole (chiamate “cenemi”, che nella linguistica contemporanea sono rappresentati da elementi privi di un significato intrinseco) non direttamente traducibili in italiano, come ya や, kana かな e keri けり. Lo stacco è reso in italiano attraverso l’uso dei segni interpuntivi (trattino, due punti, virgola, ecc.) che dividono il componimento in due emistichi e rendono più visibile la toriawase, il collegamento tra due immagini diverse in uno stesso componimento haiku.
Di solito, negli haiku in lingua italiana, siamo abituati a porre la pausa, la cesura alla fine del kamigo (primo verso di uno haiku) o del nakashichi (secondo verso) secondo questo schema:
v. 1: prima immagine (stacco)
vv. 2-3: seconda immagine
oppure:
vv. 1-2: prima immagine (stacco)
v. 3: seconda immagine
Questo avviene anche negli haiku in lingua giapponese ma, per di più, il cenema può essere anche posto alla fine del terzo verso (shimogo): quando questo succede è perché lo haijin vuole porre l’accento, e così enfatizzare, quanto suggerito all’inizio del componimento, dando origine a un tragitto circolare di comprensione poetica.
Ma cosa succede, e in che modalità, quando la cesura vien posta all’interno del verso?
Ebbene, quando questo avviene c’è un nome specifico: il chūkangire, ossia lo stacco, la cesura all’interno di un verso (di norma, ma non sempre, il secondo). Ad esempio:
hototogisu naku ya hibari to jumonji
il canto
del cuculo – con l’allodola
disegna una croce
Mukai Kyorai (1651-1704)
Oppure ancora, in questo componimento del Maestro Bashō:
ro no koe nami o utte harawata kōru yo ya namida
il suono del remo
che frange le onde mi raggela
questa notte – di lacrime
Nella traslitterazione giapponese troviamo la particella ya che, come testé detto, è il kireji: essa cade all’interno dello shimogo, prima della parola namida, inducendo uno stato di tensione lirica, dilatando l’effetto di suspense e inducendo nel lettore una sospensione di giudizio. Il chūkangire qui ha valore concettuale e semantico ma molte volte uno haiku pur non presentando un taglio esplicito a mezzo dei cenemi è possibile, comunque, individuare in esso un taglio semantico all’interno del verso come in quest’altro esempio, molto evocativo, dove, appunto, la pausa è presente all’interno del secondo ku (nakashichi):
ten mo chi mo nashi tada yuki no furishikiru
senza né cielo
né terra – solamente
neve incessante
Kajiwara Hashin (1864-?), traduzione di Leonardo Lazzari
Altre volte, lo stacco è reso come chūkangire (nella traduzione in italiano) pur presentando il kireji alla fine del terzo ku (shimogo) che, come abbiamo visto, ha la funzione, come quella di un’eco, di richiamare il lettore su quanto espresso all’inizio dello haiku. Ho provato a fare una ricerca in merito trovando alcuni haiku del Maestro Bashō resi col chūkangire nella traduzione italiana ma che, in realtà, presentano la cesura alla fine del componimento in lingua originale giapponese, eccone due esempi:
haru no yo wa sakura ni akete shimai keri
la notte di primavera
giunge a termine, il giorno nasce
sui ciliegi!
*
higoro nikuki karasu mo yuki no ashita kana
sovente odioso
è il corvo – tuttavia
questa mattina di neve…
In tutti questi anni in cui mi sono interessato e dedicato alla poesia haiku mi è capitato soltanto poche volte di ricorrere al chūkangire nei miei componimenti. In uno di questi haiku, più nello specifico, questo particolare tipo di stacco l’ho usato in modo tale che potesse rappresentare sia una pausa da un punto di vista sonoro, sia visivo:
di tronco in tronco
la quiete – poi ribatte
un picchio rosso
Antonio Sacco
In questo componimento, come dicevo, il chūkangire ha sia una valenza sonora perché mette in risalto il picchiettare sui tronchi dell’uccello in un alternarsi di pause e riprese, sia una valenza visiva perché lo haijin segue con lo sguardo lo spostarsi fra i tronchi del picchio poi la sua ripresa a perforarli.
Un altro mio esempio:
la foglia secca
somiglia a una farfalla
poi – cade a terra
Antonio Sacco
Qui l’importanza del chūkangire sta nel fatto che esso temporalizza la caduta, dilatando il senso della stessa ed enfatizzando l’immagine della sospensione.
Una corretta comprensione su come e dove posizionare lo stacco è di fondamentale importanza nell’economia generale di una poesia haiku, come abbiamo visto il chūkangire può enfatizzare e rendere più pregnante una data immagine presentata al lettore: la toriawase (ossia la giustapposizione di due immagini diverse in una stessa poesia haiku) può sicuramente essere più evocativa e acquisire maggior forza espressiva.
Credo che su questo particolare aspetto del taglio interno al verso se ne è parlato ancora troppo poco: ad oggi, se si prova ad inserire come keyword in una ricerca su Google l’espressione “chūkangire haiku” otteniamo appena 6 risultati! Il chūkangire è, quindi, una peculiarità ancora troppo poco conosciuta nel mondo dello haiku e fra gli haijin: è auspicabile che lo stacco interno al verso possa ricevere maggiore attenzione da parte degli appassionati del genere haiku e non solo da essi.
Bibliografia:
– E. Dal Prà (a cura di), Haiku. Il fiore della poesia giapponese da Bashō all’Ottocento, Mondadori, 1998.
– D. Bisutti, La poesia salva la vita. Capire noi stessi e il mondo attraverso le parole, Feltrinelli, 2009.
– L. Cenisi, La luna e il cancello. Saggio sullo haiku, Castelvecchi, 2018.
– L.V. Arena (a cura di), Al profumo dei pruni. L’armonia e l’incanto degli haiku giapponesi, Rizzoli, 2001.
– Y. Bonnefoy, Sull’haiku, O barra O, 2015.
Immagine: Utagawa Hiroshige (1835)