Metodologia e limiti nel tradurre gli haiku

Per George Steiner, critico e saggista francese, tradurre non è solo un processo letterario di tipo traspositivo, quanto una vera e propria “esperienza esistenziale” (Après Babel, 1975). È innegabile, infatti, che il confronto con un testo straniero – ancor più se poetico – richiede una sensibilità particolare nell’approcciarsi allo stesso e la ricerca di una forma che, per quanto possibile, ne riesca a preservare il senso, pur con fisiologiche perdite sui fronti metrico, ritmico e in certi casi semantico.
Il legame che si viene a creare con lo scritto è per molti versi intimo e viscerale, e la versione che ne è frutto è nondimeno l’esito di un processo che, al di là delle competenze tecniche di decodifica, coinvolge il sentimento personale di chi traduce, dando vita così ad un’opera dotata a sua volta di dignità letteraria(1).
In tale contesto lo haiku 俳句 non fa eccezione. La sua estrema brevità, sebbene facilmente equivocabile ed interpretabile come “semplicità” espressiva, tende all’opposto a rendere conto al traduttore di una serie di limiti pressoché invalicabili. Si pensi, ad esempio, alla perdita del legame rappresentativo tra segno ed elemento, o all’intraducibilità dei kireji 切れ字 (‘caratteri che tagliano’), ossia di quelle parole «alla soglia tra il livello semantico e quello musicale-sonoro» (Iarocci)(2) che di fatto rientrano nell’economia metrica complessiva dello scritto, conferendo allo scritto un tenore elevato. Si pensi, ancora, all’aura di sfericità (yojō 余剰) e alla pluralità di significati che certi tipi di carattere conservano nei loro tratti e che inevitabilmente vengono meno nel momento in cui si cerca un adeguato sostituto nella lingua di destinazione.
Conseguenza diretta di tali limitazioni, in cui possiamo far rientrare anche l’invariabilità dei sostantivi giapponesi sia nella forma singolare che in quella plurale e le peculiarità di alcune onomatopee e parole (specie se riferite a elementi di flora e fauna non presenti in altre regioni del mondo), portano il traduttore ad applicare un’interpretazione che lascia sul campo evidenti tracce di discrezionalità.
Come può procedere, dunque, il traduttore italiano per sviluppare una metodologia di approccio al testo quanto più fedele e credibile? Per George Bonneau (1897-1972) nel trasporre una poesia giapponese occorre osservare quattro “regole d’oro”(3), ossia:

  1. individuare e preservare il senso complessivo;
  2. seguire l’ordine delle parole;
  3. rispettare, entro i limiti del possibile, la scansione metrica originale;
  4. preservare le figure retoriche e forme tecnico-stilistiche particolari presenti.

Compreso il messaggio poetico nella sua totalità, il traduttore cercherà dunque di far aderire il metro della sua opera a quello dell’originale, o quantomeno garantire la medesima scansione in versi “brevi” (5 on 音) e “lunghi” (7 on), mantenendo al contempo la medesima giustapposizione tra immagini e trovando la forma migliore per rendere nella propria lingua certe figure e distanze tra segno e suo significato.
Si tratta di un’attività che richiede un dispendio di tempo e capacità analogo (se non, per certi versi, superiore) a quello di qualsiasi altra traduzione poetica tra lingue occidentali, posta anche la voluta apertura semantica dello haiku che, nel suo “vuoto di parole”, rende decisamente complessa, anzi generalmente impossibile, l’identificazione di una chiave di lettura valida in termini assoluti.
Nella mia personale esperienza, trovo peraltro difficile riuscire a mantenere lo schema 5-7-5 nella traduzione(4) (e quando ciò accade è più frutto del caso che di una scelta ponderata), preferendo piuttosto garantire il rispetto delle prime due regole, ossia preservare il senso complessivo e originale dell’opera senza troncature e mutilazioni semantiche e senza sovvertire i termini della relazione tra immagini (toriawase 取り合わせ).
In un’ampia casistica, seguendo tale procedimento, si riesce comunque a preservare una struttura poetica caratterizzata da versi brevi-lunghi-brevi, come per l’opera che seguente:

冬蜂の死にどころなく歩きけり
fuyu-hachi no shini-dokoro naku aruki keri

l’ape invernale
senza un posto dove morire,
cammina

Murakami Kijō (1865-1938)

Ciò in una prima fase di trasposizione. Chiaramente, una volta delineata la fisionomia di una traduzione quanto più possibile ad litteram, chi volesse comunque proporre una versione italiana aderente allo schema 5-7-5 potrebbe operare un’ulteriore revisione, ossia un passaggio addizionale – ma non sempre possibile e raramente consigliabile – volto a rimaneggiare l’esito letterario:

l’ape d’inverno
non sa dove morire –
lungo cammino

In altri casi ancora, laddove la ricerca di una traduzione quanto più vicina all’originale richiederebbe spezzature o forzature delle regole sopra menzionate (in particolare la seconda), chi scrive preferisce conservare la suggestione e l’apertura del testo in luogo di una scansione fonetica comunque approssimativa:

木の葉ふりやまずいそぐないそぐなよ
konoha furiyamazu isogu na isogu na yo

le foglie
seguitano a cadere:
non correte… non correte…

Katō Shūson (1905-1993)

Merita peraltro di essere ricordato che la conformazione poetica in tre versi distinti è un accorgimento formale occidentale, derivato dalle prime traduzioni che hanno iniziato a circolare al di fuori dei confini del Giappone a partire dalla seconda metà del XIX secolo e il cui scopo è sostanzialmente quello di rendere evidenti i tre momenti (ku 句) nei quali è divisibile lo haiku.
Chiaramente, qualora il traduttore italiano volesse invece rendere a sua volta la propria versione su un unico rigo (orizzontale) di composizione, alle difficoltà traspositive sopra esposte si andrebbe ad aggiungere la difficoltà nel rendere efficacemente lo stacco (kire 切れ).
Un espediente che potrebbe essere impiegato in questi casi è la tabulazione, ossia l’aumento di spazio tra i ku, come nel caso che segue:

野に山に動くものなし雪の朝
no ni yama ni ugoku mono nashi yuki no asa

niente si muove sui campi e sui monti—–mattino di neve

Fukuda Chiyo-ni (1703-1775)

Nel nostro Paese, come si è già avuto modo di rilevare in precedenti approfondimenti, le traduzioni hanno sempre mirato, invero, ad assecondare il gusto letterario della propria epoca. Si pensi, ad esempio, alle versioni di haiku classici del primo Novecento, segnate da un approccio alla “giapponesità” che in quegli anni era veicolato quasi esclusivamente attraverso la circolazione di tanka 短歌 (‘poesie brevi’); diretta conseguenza di ciò, furono trasposizioni anche profondamente lontane dallo spirito originale, in cui il traduttore procedeva per parafrasi e figurazioni del tutto personali, aggiungendo elementi assenti nel materiale di partenza e forzando il dettato al fine ultimo di avvicinarlo, per metro e ritmica, a componimenti ben più familiari al lettore:

朝顔に釣瓶とられて貰い水
asagao ni tsurube torarete morai mizu

Il vilucchio ha impigliata
la fune abbandonata
accanto alla cisterna?
Va’ a bere altrove: data
non gli è una vita eterna.

Fukuda Chiyo-ni

In questa traduzione(5) Mario Chini (1876-1959) rimaneggia il testo originale in modo tale da disporlo su cinque righe (come nella tanka); ciascuna di esse è poi resa come settenario e legata ad uno schema rimico del tipo AABAB. Come anticipato, ciò è dipeso in gran parte dalla necessità di rendere più avvicinabili al gusto del lettore italiano opere che altrimenti, nella loro estrema brevità e “fragilità d’apparizione” (Barthes), sarebbero risultate spiazzanti, se non addirittura incomprensibili.
Insieme ad una maggiore consapevolezza ed una più ampia conoscenza e diffusione dello haiku nei decenni successivi – grazie anche alla nascita di associazioni culturali votate a tale scopo, come l’Associazione Italiana Amici dell’Haiku, Cascina Macondo e l’Associazione Italiana Haiku – anche il processo di traduzione si è via via rimodulato, cercando di perseguire una fedeltà contenutistica che, al contempo, mantenesse invariati i canoni di brevità e immediatezza lessicale richiesti dallo haiku:

遅き日や谺聞ゆる京の隅
osoki hi ya kodama kikoyuru kyō no sumi

Il sole esita a tramontare –
Dalla montagna
mi giunge un’eco
in questo canto di Kyoto

Yosa Buson (1716-1784), traduzione di Irene Iarocci(6)

永き日や驢馬を追ひ行く鞭の影
nagaki hi ya roba wo oiiku muchi no kage

Giorni lunghi.
L’ombra della frusta
insegue l’asino

Masaoka Shiki (1867-1902), traduzione di Irene Starace(7)

Non è escluso che tra cinquant’anni il pubblico letterario, nel leggere le attuali antologie, percepisca lo stesso “scollamento” tra forma originale e traduzione che noi oggi rileviamo, senza peraltro troppa fatica, in quelle operate dai primi poeti e studiosi del XX secolo.
Scorrendo alcune raccolte di haiku date alle stampe negli ultimi anni, tuttavia, non possono che convincermi che la direzione intrapresa da ricercatori, poeti e traduttori contemporanei (penso, tra tutti, a Lorenzo Marinucci e alle sue traduzioni per l’editore La Vita Felice), sia divenuta sempre più puntuale e attenta, orientando le scelte in un’ottica di conservazione del senso e della sfericità dell’opera di partenza, pur nella contezza dei limiti già segnalati, che non possono e non devono impedire a questi operatori di portare nel nostro Paese opere fondamentali per la circolazione del sapere:

木枯しや東京の日のありどころ
kogarashi ya Tōkyō no hi no aridokoro

Vento di tramontana
e lì al suo posto
il sole di Tōkyō

Ryūnosuke Akutagawa (1892-1927), traduzione di Lorenzo Marinucci(8)

Note:

(1) In tal senso, cfr. anche F. Buffoni (a cura di), La traduzione del testo poetico, Marcos y Marcos, 2004.
(2) I Iarocci (a cura di), Cento haiku, Guanda, 1987, p. 28.
(3) Cfr. G. Bonneau, Le probléme de la poésie japonaise. Technique et Traduction, Librarie Paul Geuthner, 1938, «Avertissement», in C. Ghidini, Aware. Storia semantica di un termine della poesia giapponese classica, M. D’Auria Editore, 2012, pp. 21-22.
(4) Si pensi, ad esempio, al caso in cui il primo ku 句 sia dato da harusame ya 春雨や. La traduzione letterale sarebbe “pioggia [leggera] di primavera”, tuttavia in questo caso il numero di sillabe supererebbe di molto quello originale. Si potrebbe dunque optare per “pioggia leggera” (5 sillabe), ma in questo modo ne sarebbe pregiudicato il legame stagionale, con ciò dimostrando che ogni processo traduttivo richiede di per sé una qualche forma di sacrificio.
(5) M. Chini (a cura di), Note di Samisen, Carabba Editore, 1915, p. 111.
(6) I. Iarocci (a cura di), Op. cit., p. 74
(7) I. Starace (a cura di), Il grande libro degli haiku, Castelvecchi, 2005, p. 258
(8) R. Akutagawa, Haiku e scritti scelti, La Vita Felice, 2013

Immagine: Torii Kiyonobu (1725)

7 risposte a “Metodologia e limiti nel tradurre gli haiku”

  1. Molto interessante. Mi sarei aspettato anche un cenno sullo haiku su due righe che, in questo momento, sta avendo una discreta divulgazione nelle riviste haiku orientali e in molta produzione degli autori italiani. Il rischio è che questo documento cosi prezioso possa risultare monco in una visione più ampia ed esaustiva del problema.

    1. Caro Francesco,

      grazie per il commento. Lo haiku su due righe (o “two-line haiku”, come viene chiamato nel mondo anglosassone), se riferito ad un modello compositivo originale, esula dalla presente trattazione, che intende piuttosto affrontare le problematiche relative alla traduzione.

      Non mi sono ancora imbattuto, in Italia, in raccolte di haiku classici nelle quali questi ultimi venissero spezzati, come costante, in due righe, ma non escludo che tale espediente possa essere utilizzato in futuro da qualche traduttore per rendere più evidente la giustapposizione.
      Anche qui, però, non si parla di metodologia ed approccio al testo e al suo significato, quanto piuttosto di editing, di resa visiva dello haiku all’interno della pagina e, più in generale, di scelte individuali del traduttore, dove lo stacco tra immagini si rende identificabile anche attraverso l'”andare a capo”.

      Chiaramente, se uno haiku in lingua giapponese venisse redatto ab origine come distico/two-line haiku (vedasi il progetto “Haiku Column”) per motivi stilistici – anziché come unico rigo di composizione – sarà altrettanto opportuno proporre una traduzione che ne conservi tale tratto distintivo.

      Luca

      1. In un certo senso, mi sembra di intravedere una soluzione nel monoverso di Fukuda Chiyo-ni da te proposto , eliminando il trattino e spostando il secondo ku , come frammento , sulla seconda riga
        niente si muove sui campi e sui monti
        mattino di neve
        Mi sembra che , in questo modo , la giustapposizione non suoni diversamente dalla versione in tre ku:
        niente si muove
        sui campi e sui monti
        mattino di neve
        Che ne dici?
        Franco

        1. È una strada percorribile.
          Approfondirò anche la questione relativa ai two-line haiku in un prossimo post.

          Grazie ancora per l’intervento, Francesco!

          Luca

    2. Non è concepibile disegnare un haiku in due righe e pretendere che abbia un buon effetto.lo trovo pretenzioso e non capisco come sia possibile realizzarlo avendo una grammatica complicata.

  2. Letto con piacere , come tutti i tuoi articoli . La mia sensazione, a pelle, è che la traduzione letterale ( come hai mostrato nel primo esempio ) mantenga molto di più il senso originale : la forzatura in 5-7-5, quando c’è . si vede chiaramente .

  3. Ho letto con interesse questo tuo approfondimento Luca e penso anch’io che tradurre haiku non dev’essere per niente semplice.
    Sono comunque d’accordo con Angiola Inglese: quando la traduzione letterale (se mantiene meglio il senso poetico del componimento) conserva il senso e il pensiero dell’autore è certamente preferibile allo schema 5/7/5 che può diventare una forzatura nella traduzione.
    La struttura 5/7/5 è importante nello haiku originale (per molti nemmeno in quello), non credo che si debba ritenerlo importante (ne tantomeno vincolante) nella traduzione.
    Seguire lo schema 5/7/5 nella creazione di haiku è importante (o può essere importante) per molte ragioni che devono essere affrontate in un approfondimento a parte, specifico, con raffronti sereni e interessanti scambi di opinioni…
    …seguire tale struttura nella traduzione, invece, fa correre il rischio di stravolgere il senso dello haiku originale, o di apportare leggere variazioni al testo, che comunque possono alterare la visione e il senso che ha introdotto l’autore con la sua lingua originale.
    Walter

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